SARTA
Il corso di fashion designer mi ha fatto tornare alla mente questo pezzo, scritto poco più di un anno fa e pubblicato sul mio blog personale.
Lo ripropongo, perché ritengo che contenga uno spaccato di vita passata interessante e lo stimolo e la motivazione di fondo che sta alla base di Saperi Attivi.
Attendo le vostre opinioni e i vostri commenti.
Roberto
SARTA
Il tipo di lavoro svolto era un segnale per lei. Capiva se c’erano soldi in giro o no. Se le clienti se la passavano bene, venivano da lei con la stoffa e le chiedevano: “Me lo cuci un vestitino?”. Gina aveva sempre un modello per tutte. Una sottana un po’ svasata, una giacchina corta o comunque qualcosa che facesse figura, quello che chiedevano le sue clienti. Anche dal tipo di stoffa si capiva dove le clienti andavano a parare. Le modifiche di vestiti o le riparazioni invece erano un segnale di scarsa liquidità. Tutti ne risentivano se c’era poco denaro in giro. Ben pochi potevano permettersi vestiti cuciti e tra l’altro negozi di abiti ce n’erano ben pochi. La signora Milia aveva la medesima cappa da oltre trent’anni. Gina se la ricordava, l’aveva cucita lei nell’immediato dopoguerra. In trent’anni Milia era dimagrita e ingrassata, ma non molto, e la cappa non era mai stata modificata. Quando si doveva stringere non c’erano grossi problemi, ma se si allargava, andava messo qualcosa, se no si vedeva il colore diverso della stoffa. Gina usava toppe o pezzi di velluto che potevano sembrare abbellimenti del capo, li sistemava ad arte. Mascherare una lavorazione non era facile, ma le piaceva realizzare i lavori su misura, e se le piacevano, ci faceva anche dei modelli. I ragazzi più grassottelli bucavano i pantaloni dove sfregavano le cosce e le mamme li portavano a Gina per metterci delle toppe. Alla fine i ragazzi ci crescevano dentro e, se non c’erano nemmeno fratelli minori per riciclarli, finivano l’esistenza come cenci per pulire o altro. Tutto veniva usato e riusato fino alla fine. La qualità non era contemplata. Non tutti si potevano permettere la qualità. Ci volle molto tempo affinché la qualità divenisse un valore al quale mirare. Con il boom economico le richieste di prodotti cuciti aumentò a dismisura, nacque il pronto moda, e con il passare del tempo si rivelò una folle rincorsa al massacro per una miriade di produttori. Le sarte come Gina potevano realizzare un abito o un vestito partendo dalla stoffa, un lavoro di arte e ingegno anche se comportava molto sacrificio. Curve sulle stoffe, le sarte spesso vedevano i loro corpi modificarsi. La testa reclinata in avanti, gli occhiali spessi inforcati sul naso, non potevano far altro che lavorare, sempre di più. Tra le ore dedite alla casa e quelle al lavoro di sarta rimaneva loro solo il tempo per dormire, senza alternative possibili. La parte più difficile era il taglio. Le prime volte Gina sudava freddo, sentiva la responsabilità di poter sciupare una stoffa magari molto costosa. Dopo aver preso le misure alle persone, realizzava dei modelli in carta velina ottenendoli dai modelli in suo possesso. Disegnava con il gessetto bianco le righe del taglio sulla stoffa, e… zac, con mano decisa realizzava ogni parte del capo. Dopo questa operazione delicata i pezzi venivano “montati” insieme fino a formare il primo modello. A questo punto Gina avvertiva la cliente di passare a provarsi il vestito. La messa in prova era l’operazione necessaria per ottenere il capo finito, come i sarti, che spesso abbiamo visto in qualche film, quando mettono gli spilli su stoffe solo imbastite. L’imbastitura era l’operazione di abbozzo con un robusto filo bianco di cotone, era il primo modello. Se tutto andava bene, Gina passava alla cucitura a macchina. Dopo, il capo era pronto, bastava togliere le filze e stirarlo bene. Non c’erano i ferri da stiro a vapore! Il ferro veniva riscaldato sulla piastra della cucina a legna. C’era sempre un ceppo nella cucina e l’acqua nel bollitore anche per mantenere un po’ di umidità in casa. Un panno di cotone resistente, bagnato e strizzato, veniva disteso sul capo da stirare e poi con il ferro caldo il vapore si sprigionava da sotto il ferro con il fragore familiare di uno sfrigolio. Gina amava molto il suo lavoro, ma non poteva staccare mai. Oltre ai figli da crescere e le faccende di casa, aveva imparato un mestiere che le consentiva di cucire abiti per la famiglia e le consentiva anche delle modeste entrate di reddito, ma che non era molto considerato dalle sue clienti. La macchina da cucire sempre efficiente era stata sepolta sotto terra al passaggio dei tedeschi, per evitare che gliela rubassero. Svolgeva sempre in modo efficace il suo compito. Gina aveva provato ad andare a lavorare in fabbrica, ma non era rimasta a lungo. Nonostante avessero capito il suo valore, l’attività sartoriale era in mano al sesso maschile, e in fabbrica l’avevano relegata a lavori secondari e meno qualificati. Gina aveva percepito questa scarsa considerazione e allora aveva preferito dedicare alla famiglia le sue capacità e cucire per qualche cliente ogni tanto.
Ci vogliono anni per imparare mestieri e così poco tempo per buttare alle ortiche quanto appreso in una vita.
In un mondo attuale, speso tanto negativo, mi piacerebbe che si potessero riattivare le competenze di tante persone ancora vive, e non mi riferisco a quelle non al cimitero, intendo quelle persone disposte a mettersi in gioco e condividere i loro saperi, disposte a insegnarli.